Mi colpisce un grande cimitero sulla collina, tanta erba e tante croci, com’è poeticamente narrato nell’antologia di Spoon River.
Dobbiamo recarci ad incontrare il nostro host sulla quattordicesima, (qui devo aprire la parentesi per spiegare che a New York per identificare un luogo bisogna definire l’avenue che va sempre nella direzione nord-sud e poi precisare la street che corre da est ad ovest; essendo le avenues e le streets perpendicolari fra loro è facile stabilire il punto preciso di una via, insomma, facile, abitandoci poi, magari, imparerei bene…) quindi, sulla quattordicesima, prima avenue, non lontano da Chinatown.
La metro non è poi così affollata, è festa e non c’è il traffico dei pendolari.
Per la verità abbiamo appuntamento in un luogo che non è quello concordato. Giusto ieri abbiamo ricevuto una mail dove si precisava che dovevamo andare in un altro posto.Troviamo subito il luogo, presso l’Hudson River, chiamiamo al telefono il nostro referente che ci risponde che sarà lì entro cinque minuti. Ed infatti, ecco spuntare un tipo che ci fa un cenno di saluto. La giornata è grigia e pioviggina e ci si avvicina uno con le infradito di plastica… magari qui invece degli stivali usano quelle… le infradito che si combinano bene con la Jamaica Station… L’aspetto del tipo non è da fashion designer come si presentava su internet, anzi… Ci dice di seguirlo. Mah! Tutto intorno, casermoni di mattoni rossi con minuscole finestre, il tipico quartiere dormitorio. Ed è in uno di questi stabili che entriamo. Giò si lancia a dire che non gli sembra quello il luogo visto su internet con l’agenzia.
Muto, ma galante, il tipo si offre di portarmi la valigia. Saliamo all’undicesimo piano con l’ascensore.
Ma siamo sicuri di quello che facciamo? Lui ci dice che il famoso designer dorme ed ha mandato lui che è più sveglio! Dice di essere il fratello, non certo gemello! Mah! Di nuovo Giò si azzarda a dire che non è proprio quello il posto… Entriamo in un appartamento e per poco non inciampiamo in qualcuno che sta dormendo per terra. Abita qui? Si. Il tipo continua a far finta di non capire e ci conduce in quella che per una settimana dovrà essere la nostra mitica stanza newyorkese. Purtroppo c’è anche un odore insopportabile, forse vorrebbe essere un profumo, ma è soprattutto un tanfo.
La persona dormiente in terra fra le sue valigie, al nostro passare, si sveglia e ci saluta con un accento molto riconoscibile! E’ un italiano, di Brescia, dice che ha il visto per tre mesi come turista, ma lavora in nero in un ristorante ed usa quel buco solo per dormire.
E la nostra stanza? Assolutamente spoglia a parte due reti appoggiate in un angolo e rivestite di lenzuola di nylon nere, già questo mi dà il vomito. Il letto per Federico non c’è, il primo armadio a muro che apro è zeppo di scarpe e altro sporco materiale che manda una puzza notevole: ecco cos’è quel misto di odori! Essenze, essenze di vita vissuta! Un’unica fioca lampada e già penso come potremo leggere la sera se Federico vorrà dormire. Sotto la piccola finestra un grande calorifero acceso che rende l’aria ancora più insopportabile. In compenso, il paesaggio che si vede dalla finestra è bello, sull’Hudson River. Va bene, ma ce ne saranno di panorami belli a New York! Inoltre, nonostante siamo all’undicesimo piano, il rumore del traffico nella via sottostante, la Roosevelt Drive, è molto assordante. Mi siedo sull’angolo del nero letto e piango trasparenti lacrime. Giò si fa sentire di nuovo ed il tipo ci risponde di contattare l’agenzia.